Assunta Spina, Amore e Passione a Napoli

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Alexandra Borgia
view post Posted on 8/12/2007, 11:41 by: Alexandra Borgia
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Libraia, Scrittrice e Promoter Culturale

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BIOGRAFIA
di
Nevia Buommino


Si avviava a seguire la professione del padre, il giovane Salvatore Di Giacomo, quando in una piovosa mattinata dell’ottobre 1880, rimasto scioccato da una lezione di anatomia, decideva di allontanarsi da quegli ambienti e un grottesco episodio segnava il suo addio alla medicina: risalendo le scalette, che portavano giù ai laboratori, vide scivolare davanti a sé il bidello che teneva sulla testa una «tinozza di membra umane» e nel cadere con lui rotolarono «teste mozze, inseguite da gambe insanguinanti».
L’orrore di quella scena sembra ancora riecheggiare nei primi racconti di impianto e ambientazione tedesca, che il Di Giacomo si accinse a scrivere e a pubblicare sul “Corriere del Mattino”, negli anni in cui per vivere lavorava come correttore di bozze, presso la tipografia editrice di Francesco Giannini, per poi diventare nel 1883 cronista. Ma fu questo il periodo decisivo per lui, perché da un lato fece fondamentali incontri, come quello con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo introdussero in più vivi ambienti napoletani, e dall’altro la sua attività di giornalista e fotografo, talora anche di cronaca nera, lo avvicinarono alla Napoli più verace e sofferta con i suoi drammi e miserie emersi nel ventennio postunitario, quando Partenope perse i suoi privilegi di capitale borbonica.
Ed è grazie a questo repertorio di fatti e immagini, tratti da vicoli, carceri, tribunali, ospedali, fonte della sua produzione e in particolare del suo realistico teatro, che Di Giacomo sottrasse la letteratura napoletana al riduttivo bozzetto verista, importandovi l’anima più profonda di una città che presto si identificò nella sua poesia: temi e valori in cui i lettori si potevano riconoscere, come più tardi accadrà con Eduardo De Filippo. Ciò sembra spiegare il vasto consenso di pubblico alle sue prime canzoni, che in quegli anni validi artisti musicavano, quali Mario Costa per la petrarchesca Era de maggio, Enrico De Leva che rese famosa ’E spingole frangese e il rinomato Francesco Paolo Tosti per Marechiare, la cui melodia la rese talmente celebre in tutto il mondo da farla tradurre in più lingue e persino in latino

«Luna cum Claris Maris exstas undis / aestuant pisce furiis amoris: / pura perlabens variat micantes unda colores»
(«Quanno sponta la luna a Marechiare / pure li pisce nce fanno a ll’ammore, / se revoteno ll’onne de lu mare, / pe la priezza cagneno culore»).


Nel 1896 il Di Giacomo ormai trentaseienne smise col giornalismo, lasciando il “Corriere di Napoli”, per cercare - in una sorta di claustrofilia - nel silenzio e nel chiuso delle sale di lettura, in qualità di bibliotecario della Lucchesi Palli (sezione della Biblioteca Nazionale), quella calma che sentiva necessaria alla sua ispirazione e al suo carattere umorale, beneficiando della notorietà che le sue canzoni ormai popolari gli garantivano. Si teneva così lontano da clamori e mode della belle époque partenopea, quasi estraneo alle tendenze letterarie del periodo (col classicismo professorale di Carducci, il decadentismo rurale di Pascoli, lo snervante estetismo di D’Annunzio, che pure a Napoli era di casa), per portare ad estrema perfezione quel dialetto che assorbì nella sua matrice popolare suggestioni ed echi antichi di letteratura alta: dai lirici greci, quale Saffo, all’opera buffa di Paisiello, per passare attraverso le esperienze di Cortese e Basile. Di Giacomo, dunque, realizzava un’originale sintesi che pur nella struttura colta ha l’immediatezza della lingua parlata: era il dialetto «digiacomiano», definito un napoletano italianizzato.
Intanto il successo gli arrideva anche grazie alla pubblicazione di libri di prose (Minuetto settecentesco, Nennella, Mattinate napoletane, Rosa Bellavita) e ai primi lavori teatrali presto rappresentati con buon esito (La Fiera, La Mala Vita, A San Francisco). La poesia digiacomiana, forse perché voce di un popolo che attraverso il canto e la naturale teatralità esprimeva se stesso, rivelò immediatamente una sua intrinseca musicalità, tanto da portare la canzone napoletana - tra fine ‘800 e primo ‘900 - alle proporzioni di vero e proprio fenomeno culturale.
La scelta professionale di bibliotecario segnò profondamente la vita del poeta, non certo per gli oneri che il nuovo lavoro imponeva, ma per un incontro che a lui fu fatale e di certo si rifletté nei temi della sua poesia d’amore. Era il 1905 quando Di Giacomo - ormai reso famoso anche alla critica, grazie ad un saggio rivelatore di Benedetto Croce, che in seguito ne pubblicava in volume le poesie - conobbe una giovane studentessa del Magistero, la quale prese l’abitudine di recarsi alla Lucchesi Palli per conoscere e comprendere da vicino il poeta che aveva scelto di studiare per la sua tesi di diploma. Elisa Avigliano, questo il nome, una ragazza «auta e brunetta» (alta e brunetta) più giovane di lui di 19 anni, fra una frequentazione e l’altra accese tanto di passione il cuore dell’artista da diventare presto l’unico e tormentato amore della sua vita, che solo dopo 11 anni di fidanzamento fu coronato dal matrimonio, il 20 febbraio 1916. Fu una passione piena di sospetti e gelosie dall’una e dall’altra parte («a nera gelusia»), scossa da liti e minacce di separazione, ma sempre struggente e vitale nel cuore di un poeta che nella sua napoletanità fu anche fortemente meteoropatico e condizionato dal morboso affetto materno. «La mia anima» scriveva alla sua Elisa «è sempre come un cielo ora annuvolato, ora luminoso su cui rapidamente si avvicendano sole e nubi e devo ripeterti, ancora una volta, che il buono e il cattivo tempo lo fai unicamente tu», forse preludio alla successiva Marzo:

«Marzo: nu poco chiove / e n’ato ppoco stracqua: / torna a chiovere, schiove, / ride ’o sole cu ll’acqua. / Mo nu cielo celeste, / mo n’aria cupa e nera: / mo d’ ’o vierno ’e tempeste, / mo n’aria ’e primmavera. / N’auciello freddigliuso / aspetta ch’ esce ’o sole: / ncopp’ ’o tturreno nfuso / suspireno ’e vviole … / Catarì… Che buo’ cchiù? / Ntiénneme, core mio! / Marzo, tu ’o ssaie, si’ tu, / e st’auciello songo io».


Gli alti e bassi di questa storia furono senz’altro fecondi per alimentare la vena poetica di Di Giacomo, anche quando degenerano in misogine affermazioni come ne Le bevitrici di sangue:

«Nun ridere! Li femmene / so ’nfame tutte quante, / e pure quanno rideno / metteno ncroce ’e sante».

Ma proprio questa caleidoscopica umanità di emozioni, percepite alla luce del sole, al chiarore della luna, nel tremolio del mare, fra le eterne stagioni che descrisse, l’amore per la madre, per la donna - amore corrisposto, amore lontano, amore deluso, amore «addurmuto» e poi «scetato» - resero la sua produzione, sia pur così aderente alla realtà geografica di quei tempi, intensamente universale e cosmopolita, tanto che il critico Gianfranco Contini nel 1968 considerò la voce del Di Giacomo «in assoluto una delle più poetiche del suo tempo», permettendo alla poesia in dialetto di tornare qualitativamente, come già per il Belli a Roma, competitiva con quella in lingua. Dunque sarebbe riduttivo parlare di poesia popolare per un autore che seppure attinse idee e suggestioni dalla sua città, la elevò nell’ambito di una stagione felicemente creativa e alta per letterati e musicisti partenopei, tragicamente interrotta dalla prima guerra mondiale. Osservava a proposito Pasquale Scialò: «Di Giacomo rappresenta il ceto intellettuale che cerca nel vernacolo una verginità espressiva diversa da quella dei moduli stantii degli accademici». Mentre, nel 1911, Croce scriveva «pel Di Giacomo l’uso del dialetto (del particolare dialetto digiacomiano) è stato la forma spontanea e necessaria in cui si è espressa la sua anima e quasi il mezzo di liberazione della sua poesia dalla “letteratura” insidiatrice» e «la poesia (la vera e alta poesia) dialettale napoletana coincide del tutto con la persona del Di Giacomo, il quale non ha in essa né predecessori né (finora almeno) successori». Ma il Di Giacomo protagonista della svolta dialettale del Novecento avrebbe poi rappresentato un modello per tutta la successiva produzione neodialettale meridionale, e non solo.
Tuttavia, il grande amore del poeta, il tema principale della sua produzione, fu senza dubbio Napoli. Quella città che ancora non conosceva gli orrori della Grande Guerra e che profumava dei suoi innumeri giardini, dei cibi saporosi delle antiche trattorie, nei vicoli sospesi tra cielo e mare, dove si ascoltavano le ‘voci’ gridate dei mestieri e i canti melanconici degli innamorati. Quando egli si spense nella notte tra il 4 e il 5 aprile 1934 nella sua casa di San Pasquale a Chiaia, Napoli perse uno dei suoi maggiori interpreti, che nel ’29, al culmine del successo, era stato perfino nominato Accademico d’Italia. Personalità versatile, il Di Giacomo poeta storico letterato studioso giornalista bibliotecario lasciava un repertorio di immagini, parole e musiche che condensavano tradizioni, voci e sentimenti di una “Napoli nobilissima” di cui egli forse seppe tessere come pochi gli elogi, attraverso l’infinito amore che la sua gente sempre gli mostrò e ch’egli ricambiò, spesso passeggiando fra quelle viuzze dove si fermava ad osservare il popolo con la sua spettacolare e congenita teatralità. E di Napoli l’artista vagheggiava nostalgicamente soprattutto il glorioso passato settecentesco, la sua pittura lussureggiante, le armonie musicali e il melodramma di Metastasio, il vivace teatro, negli anni in cui la città aveva il gran respiro di capitale europea, accanto a Parigi, Vienna, Londra. Ha scritto giustamente di lui Max Vajro: «Di Giacomo ha scritto di Napoli tutto quello che un poeta poteva, componendo il più affascinante e dolente ritratto della città: cronache di tribunale, scene di silenziosa miseria, amori furenti e abbandoni, rappresentazioni dell’amara vita dei fondaci, ricostruzioni di scene amabili del settecento… la turpitudine della malavita» ma anche «l’eleganza della classicità napoletana». È come se egli avesse dato voce e solennità alla secolare poesia della sua città, non a caso raggiungendo le massime espressioni in quelle che furono da sempre le sue intrinseche forme d’arte: la canzone e il teatro.

«Nu pianefforte ’e notte / sona luntanamente, / e ’a museca se sente / pe ll’aria suspirà. / È ll’una: dorme ’o vico / ncopp’ a sta nonna nonna / ’e nu mutivo antico / ’e tanto tiempo fa. / Dio, quanta stelle ncielo! / Che luna! E c’ aria doce! / Quanto na bella voce / vurria sentì cantà! / Ma sulitario e lento / more ’o mutivo antico; / se fa cchiù cupo ’o vico / dint’ a ll’oscurità. / L’anema mia surtanto / rummane a sta fenesta. / Aspetta ancora. E resta, / ncantannose, a penzà».

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Anna Magnani ... Assunta Spina
Eduardo De Filippo ... Michele Boccadifuoco
Antonio Centa ... Federigo Funelli
Maria Donini ... Ernestina
Aldo Bufi Landi ... Marcello Flaiano (as Aldo Landi)
Margherita Pisani ... DonnaConcetta
Giacomo Furia ... Tittariello
Carla Ferraioli ... Tina Bouquet
Ugo D'Alessio ... Epanimonda Pesce
Aldo Giuffrè ... Don Marcusio, la guardia
Titina De Filippo ... Emilia Forcinelli
Luigi Amato ... (personaggio sconosciuto)
Anita Angius ... (personaggio sconosciuto)
Clara Bindi ... Una lavorante alla stireria
Pietro Carloni ... Il presidente del tribunale
Eugenio Maggi ... (personaggio sconosciuto)
Beniamino Maggio ... Il venditore di biglietti della lotteria
Anna Petrolani ... (personaggio sconosciuto)
Gennaro Pisano ... Il cancelliere del tribunale (uncredited)
Rosita Pisano ... Una lavorante all stireria

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NB: Le due foto che vedete qui sono oggi una vera rarità. E'molto difficile trovarle su internet, a meno che non siano coperte da copyright. Una chicca che forse non sfuggirà al vostro occhio critico: la seconda immagine ritrae il Cancelliere Funelli, adagiato sulle scale di un vicolo che probabilmente conduceva alla casa di Assunta. Si può riconoscere benissimo la grande Anna Magnani circondata dalle guardie mentre si dichiara colpevole dell'assassinio.
Nella versione del 2006, Federico (oltre a non essere di origine spagnola) muore accoltellato da Michele Boccadifuoco all'interno della sua stessa proprietà.

Produzione.....Paolo Frascá, Vittorio Mottini
Musiche originali...Renzo Rossellini
Cinematografia....Gábor Pogány
Film editing....Fernando Tropea
Allestimento set....Vincenzo Trapani
Disegno costumi....Michele Contessa, Gino Sensani
Production management....Paolo Frascá
Assistente alla poduzione....Augusto Carloni, Leo Cattozzo
Set designer....Piero Filippone
Suono....Ovidio Del Grande
Camera.... Bitto Albertini
ALTRI CREDITI:
Federico del Fauro .... production secretary
Virginia Genesi Cufaro .... laboratory technician


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CARO RICORDO DEGLI ANNI MIEI TESTARDI


Nel periodo mio più acceso del mio amore per il teatro, quando la testardaggine della giovinezza, quella dei 14, 15 anni, diventa un peso determinante per quel che potrà essere di bene o di male il futuro dell’uomo, per le strade di Napoli, vicoli e vicoletti compresi, camminavo giornate intere senza una meta fissa, senza consultare l’orologio perché non lo possedevo... Camminavo così, come a caso, ma con l’intima speranza di salutare Ernesto Murolo in carrozzella, proveniente dalla sua abitazione di San Pasquale a Chiaia. Spesso lo pizzicavo a via Calabritto o a Piazza dei Martiri, ma il più delle volte a Toledo. Se riuscivo a farmi notare, m’invitava a raggiungerlo. Io non aspettavo altro: «Arrivo!». Il traffico a quei tempi era ragionevole; attraversavo la strada in un lampo, un salto, e mi trovavo accanto all’autore di Pusilleco addiruso, la canzone che a buon diritto mise il giovane scrittore all’altezza dei poeti più amati e stimati dal popolo e dalla critica di Napoli. In seguito fu uno dei protagonisti del Teatro d’Arte Napoletano, e anche in quel campo fece centro: basterebbe citare l’atto unico Signorine, che ebbe un travolgente successo con duecento repliche di esauriti al Teatro Nuovo. Ora parla Ernesto Murolo, durante la nostra passeggiata in carrozzella: «Eduardié, l’impresario del Teatro Nuovo si comprò Signorine, dandomi un con penso di 200 lire, una tantum: tu capisci l’affare che ho fatto?».
Eduardo Nicolardi, l’autore di Voce ‘e notte, lo andavo a trovare nel foyer del Salone Margherita, alla Galleria Umberto, dove aveva il posto di lavoro. Scriveva articoli di terza pagina per il Mattino e dello stesso giornale fu critico teatrale. «Caro don Eduardo, buon giorno!».
Risposta immancabile: «Gué, Eduardié, asséttate».
Poggiava la penna sul calamaio, piegava la sedia all’indietro per poi girarsi verso di me, e l’insieme di quei gesti significava che m’accoglieva volentieri, e che una mezz’oretta di riposo non avrebbe guastato il suo lavoro. «Eduardié, che si dice? Col lavoro, che fai?». «Don Eduà, diciamo: che penso di fare... ».
Quella mezz’ora di conversazione mi lasciava pago per una, due settimane, poi tornavo da lui per arricchire sempre più il mio modesto bagaglio di cultura teatrale. Rocco Galdieri, in arte Rambaldo, lo conobbi che avevo solo otto anni. Egli frequentava quotidianamente la casa di Eduardo Scarpetta, allorché i due eminenti uomini di teatro decisero di scrivere insieme L’Ommo che vola!, una grande rivista di attualità che andò in scena nel 1909 al Teatro Bellini. La collaborazione Rambaldo-Scarpetta continuò l’anno seguente con Cielo e Terra, e ancora nel 1911-12 con Babilonia e nel 1912-1 3 con Babilonia com’era e com’é. Avevo raggiunto i tredici anni e mezzo, mancava poco per varcare la soglia degli anni «testardi», ma mi sentivo quasi maturo, e cosciente di aver saputo assorbire da quei due grandi uomini di teatro gli elementi indispensabili che mi avrebbero dato la quasi certezza di potere intraprendere con successo la via del teatro.
Varcata quella benedetta soglia, pensai immediatamente che tempo da perdere non ce n’era: cominciai a dare la caccia ai grossi nomi del mondo del teatro in genere. Il primo fra tutti che gettò uno sguardo di comprensione e simpatia sui miei quindici anni appena compiuti, fu Libero Bovio: mi volle subito bene, e io a lui. La sua amicizia mi fu di grande incoraggiamento durante le mie esperienze. Avvicinai poi Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Capurro, Viviani, Chiurazzi, Costagliola, E.A. Mario, Michele Galdieri e fui amico fraterno di Lorenzo Giusso. Purtroppo, l’unico nome che non mi è dato d’inserire tra gli scrittori che conobbi personalmente è quello di Salvatore Di Giacomo. Colpa mia? Colpa sua? Di nessuno dei due.
Fu colpevole la dannata polemica che si accese, e che durò per anni, fra Eduardo Scarpetta e il gruppo di scrittori dialettali che si formò in difesa del Teatro d’arte, di cui Di Giacomo fu il più autorevole e accanito assertore.
Guai a me, se mi fossi avvicinato al grande poeta! La controversia tra i due famosi litiganti mi fece vivere giorni di amarissimo smarrimento. Si trattava di una scelta: o mio padre o Di Giacomo. L’ammirazione e il rispetto che mi legavano a mio padre mi facevano mettere da parte Di Giacomo, mentre il fascino che esercitava su di me la poesia del Di Giacomo mi spingeva verso una via traversa.., e a conti fatti, me la cavai bene.
I gruppi degli amatori del teatro digiacomiano reclutavano a dozzine i ragazzi di ogni quartiere di Napoli e provincia, ed erano numerosissimi, centinaia. Uno di questi gruppi fu messo su da Michele Mercurio, discendente della prolifera famiglia Mercurio, che a sua volta dettava legge nel campo della tecnica di palcoscenico; da lui mi venne affidato il ruolo di Epaminonda Pesce, che appare nel solo primo atto di Assunta Spina, con in più l’obbligo di presentarmi alla ribalta, a fine spettacolo, per declamare qualche poesia del poeta.
Dopo circa due mesi di prove, l’unica rappresentazione di Assunta Spina, con relativa declamazione di poesie a fine recita, ebbe luogo in uno stanzone d’un appartamento al terzo piano di un antico palazzo sito in via Pietro Colletta, dove abitava un certo De Bonis, il quale si guadagnava la vita come suggeritore e come affittuario dell’improvvisato teatrino, messo su alla buona. Lo stanzone, però, non riuscì mai ad assumere l’aspetto d’un vero teatro, sebbene vi fosse un tendone che fungeva da sipario, una pedana alta una settantina di centimetri, due quinte a destra e due a sinistra per le entrate e le uscite dei personaggi, e una boccascena di tela di sacco tinta di rosso, che segnava il limite tra il «palcoscenico» e lo spazio per il pubblico.
I frequentatori del teatrino di De Bonis, saranno stati non più di cinquanta o sessanta persone, erano gli inquilini del palazzo, infatti i manifesti che annunciavano gli spettacoli si attaccavano soltanto per le scale, dal primo al quarto piano... Nella sala non c’erano né panche né sedie, questo gli inquilini lo sapevano, e così ognuno di loro si portava dietro una sedia da casa.
Questo fu il mio primo incontro clandestino con il grande don Salvatore. Gli fui accanto per circa sessanta giorni di prove, e lo evocai orgogliosamente durante la rappresentazione di Assunta Spina e, mentre declamavo, a fine recita, Lassammo fa’ a Ddio.
Quell’unico spettacolo domenicale dato nello stanzone di casa De Bonis, è rimasto uno dei ricordi più commoventi della mia lunga vita di teatro. Difficilmente si può provare un’emozione più sconvolgente di quella che io provai quando, dopo gli applausi rivolti all’autore e a noi ragazzi, arrivò fino a me il vocio degli inquilini che commentavano lo spettacolo. Ancora qualche applauso, e tra il rumore dello spostamento delle sedie che venivano riportate via, mi parve di riconoscere la voce di don Salvatore che diceva: «Eduardié, bravo! Si l’appura pàtete, staje fisco...»
Caro don Salvatore, posso dirvi sinceramente che la vostra stretta di mano non mi è mai mancata; di questo vi sono grato e mi permetto di chiedervi un abbraccio... Vostro
Eduardo De Filippo

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VERSIONE TEATRALE DEL 1909


Il dramma ricavato da una novella digiacominiana, prima di giungere sul grande schermo nel 1915, calcò le tavole teatrali, e fu rappresentato il 27 Marzo del 1909 al teatro Nuovo di Napoli, con l’interpretazione di Adelina Magnetti. Trattasi di un classico melodramma verista italiano, storicamente fa sì che l’opera rientra appieno nella cultura del Teatro Verista, un teatro basato sulle grandi passioni elementari, sulla gelosia, sugli inganni e tradimenti, sul senso del peccato e sul versante pessimista dove “il popolano emarginato è succube di un oscuro destino” al quale difficilmente riesce a sfuggire. (Alessandro D’Amico, in Il teatro verista e il grande attore).

VERSIONE CINEMATOGRAFICA DEL 1915

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Con Francesca Bertini, Gustavo Serena, Carlo Benetti, Alberto Albertini, Antonio Cruicchi, Amelia Cipriani, Alberto Collo.
Ad inizio secolo scorso il cinema aveva portato perplessità e in taluni casi entusiasmi tra letterati e uomini di cultura. Viene subito alla mente Pirandello e i suoi Quaderni di Serafino Gubbio (o Si gira) ma quello che si vuole fare in questo articolo è restringere il campo, portando esempi di intellettuali che furono attivamente implicati nella nascente industria filmica, scrivendo soggetti e testi. L’opera cinematografica più celebre scritta da Salvatore Di Giacomo è sicuramente Assunta Spina (1915), adattata dal suo stesso dramma, per la regia di Gustavo Serana e la produzione della Caesar Film. Protagonista nel ruolo di Assunta è Francesca Bertini, diva italiana del muto per eccellenza. Prima di intraprendere la carriera cinematografica, Elena Vitello - in arte Francesca Bertini - aveva già interpretato questo dramma al Teatro Nuovo di Napoli, nel ruolo di una figurante. Promossa a prima donna, sul grande schermo, la Bertini si entusiasmò a tal punto da intervenire addirittura sulla messa in scena del film. Ne dà testimonianza il regista del film, Gustavo Serena: “E chi poteva fermarla? Organizzava, comandava, spostava le comparse, il punto di vista, l’angolazione della macchina da presa; e se non era convinta di una certa scena, pretendeva di rifarla secondo le sue vedute”.
Nell’adattamento per lo schermo, Di Giacomo modifica in parte lo svolgimento dell’azione aggiungendo una prima parte, che costituisce una sorta di prologo a ciò che avviene nel dramma teatrale.

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Tutto il materiale fotografico e biografico presente in queste pagine appartiene di diritto ad ogni singolo proprietario. E'stato operato un lungo lavoro di ricerca, per cui se desiderato postarlo altrove chiedete permesso a me e ricordatevi d'inserire i credits. Buona lettura.
Lady Alexandra


Edited by LadyAlexandra - 8/12/2007, 12:46
 
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1 replies since 8/12/2007, 10:59   10118 views
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